INTRODUZIONE
Chissà se ancora oggi per le strade di Somma Vesuviana si respira lo stesso pungente odore di stoccafisso che le abitava quindici o vent’anni fa. Erano i tempi in cui etnologi, musicologi e antropologi calavano a grappoli su questo paese di circa trentamila abitanti stravaccato sui tuori vulcanici del monte Somma, alle spalle del Vesuvio. Volevano esplorare i meandri di quella che, nel loro gergo accademico, chiamavano un po’ pomposamente una «zona demologica conservativa per eccellenza». Il che voleva semplicemente dire che a Somma Vesuviana, nell’area compresa tra il santuario della Madonna di Castello, sulle pendici del monte, e la frazione di Santa Maria del Pozzo, ai bordi della piana nolana, per qualche sottile e non ben identificato motivo, i ritmi contadini, i ruoli sociali, i riti, le tradizioni, le musiche, i racconti di un mondo arcaico e perfettamente integrato resistevano impavidamente alla modernità e alla postmodernità incombente, magari adattandovisi in modi spesso imprevedibili. Di quell’epoca di furore antropologico sono rimaste numerose «ricerche sul campo»), nonché, per molti, i piacevoli ricordi di pantagrueliche libagioni nelle occasioni rituali in compagnia degli ospitalissimi contadini.
Per Angelo Di Mauro, che a Somma ci è nato, ma è stato poi costretto a viverne lontano, i ricordi del paese erano, invece, qualcosa di più: le radici, la memoria di una cultura segreta, dell’infanzia, di volti noti che si aggiravano per i vicoli della sua testa. Non ha resistito. Dal 1978 a oggi, armato di registratore, ha percorso il Casamale, il borgo di viuzze e cortili chiuso, un tempo, dalla cinta di mura aragonesi, è tornato sul sagrato della Collegiata dove si svolgeva la vita comunitaria e dove i vecchi raccontavano le loro storie, ha calpestato il lapillo nero sui fianchi della montagna, si è addentrato nei boschi di robinie, nei castagneti e nei vigneti, per raccogliere «testimonianze» da una trentina di «narratori». Alcuni di ossi non conoscevano il registratore, altri, più giovani, lavoravano in fabbrica, magari all’Alfasud di Pomigliano d’Arco. E tuttavia, la raccolta di racconti che ne è venuta fuori non è soltanto un libro di fiabe. L’autore dice che si tratta di «una testimonianza sui narratori e fruitori di fiabe perdute». Non c’è motivo di dubitarne. Del resto, basta considerare l’attenzione con cui vengono descritti vecchi e comari in carne e ossa che, nel particolare dialetto sommese dalle vocali larghe e cantilenanti, «parlano ad anziani compagni davanti a focolari accesi». Inventando maldicenze, pettegolando. ridendo di loro stessi, ascoltandosi, specchiandosi gli uni con gli altri.
In realtà, però, questo libro è ancora qualcosa di più, perché Di Mauro non si è limitato a trascrivere dei cunti e a raccontare chi li racconta, ma si è fatto narratore egli stesso, mettendo in campo i propri ricordi e fondendoli con il tessuto di parole che tiene insieme la società contadina sommese. Ogni capitolo, infatti, si apre con una sorta di vecchio demiurgo, «che racchiude in sé tutti i vecchi del borgo» e propizia le storie che seguiranno, prima delle fiabe vere e proprie: eventi che si riferiscono, grosso modo, al periodo tra le due guerre e agli anni della ricostruzione e nei quali sono labili i confini tra i fatti, i miti, la fantasia, la realtà.
Si comincia, naturalmente, con le leggende sulla genesi dei luoghi, sulla nascita della montagna, divinità terragna con la quale i sommesi intrattengono un rapporto di amore quasi carnale: l’auscultano, ne traggono auspici, ne cercano i «ventarelli» che provengono dal sottosuolo, dal fiume carsico che probabilmente la percorre. Su quella montagna, si svolgono i riti arcaici e pagani, uguali da secoli, fusi, in un meraviglioso sincretismo, con quelli cattolici: la festa della Madonna di Castello il 13 di maggio, quando le paranze salgono alla chiesa portando la pertica della fertilità e ballando ai ritmi delle tammorre; il Sabato in Albis, o sabato dei fuochi; la processione degli incappucciati del Venerdì Santo; la festa delle lucerne, quando tra enormi forme simboliche addobbate di luce vengono allestiti meravigliosi banconi con vere e proprie sculture di frutta e verdura.
Più in basso, invece, nei vicoli del Casamale, sul sagrato della chiesa della Collegiata, figure e personaggi provenienti da una increspatura del tempo si muovono come su un malinconico palcoscenico, che gli anni stanno purtroppo trasformando in un deserto di silenzio: Enricuccio il venditore di pannocchie, Maria-la-Lavandaia, il fotografo Totonno-di-Centobutti, lo stagnino, l’arrotino, il puparo, il ricottaio con le sue «fuscelle» di vimini, Mastro Gaetano il calzolaio che scrive poesie… La loro vita è scandita dai lenti ritmi delle domeniche in paese, quando «sotto mezzogiorno nelle zuppiere saltano gli ziti spezzati a mano e accompagnano al caldo ticchettio il passo dei maschi scesi in piazza», oppure segue le necessità delle stagioni, come in occasione dell’uccisione del maiale nel giorno di sant’Antonio.
Nei cortili, sotto i pergolati, le sere d’estate gli anziani raccontano leggende di serpenti e di lupi mannari, mentre le ragazze portano una fascetta alle caviglie nei giorni delle mestruazioni e gli adolescenti diventano adulti attraversando prove del fuoco e piccoli riti il iniziazione. Qualcuno doveva soffiare nella ferita di una capra appena uccisa per riuscire a separarne la pelle dalla carne. Ad altri, invece, «misuravano l’adolescenza all’uscita dal barbiere colpendo la nuca bianca, rasata, con sonori scappellotti. Se in quello spazio fresco entravano tutte e quattro le dita di una mano era un uomo, altrimenti lo sollevavano da terra stringendogli le tempie pungenti e gli chiedevano: “Vedi Napoli?”.>) Per altri ancora, la prova del fuoco era la prima sigaretta con carta di giornale fumata di nascosto in un pollaio, il lancio dei fuochi artificiali, il primo sparo col fucile affrontato senza chiudere gli occhi e senza cedere al rinculo.
Ma c’è di più. Un alone soprannaturale accompagna tutti i personaggi evocati da Di Mauro. «Realismo magico» vesuviano? E probabile: una figura come Carolina dei pipistrelli non sfigurerebbe in un romanzo di Garcìa Màrquez o di Aldo Carpentier. Del resto, a Somma i comportamenti magici incidono davvero sulla vita delle persone, influenzano neonati, puerpere, malati, moribondi. Morti, fantasmi e ,monacelli, così assiduamente presenti nella vita di ogni giorno, godono semplicemente di uno statuto diverso da quello dei vivi, ma non se ne differenziano più di tanto. E’ un universo in cui nulla è lasciato al caso, in cui non esistono oggetti neutrali, e ai segni corrispondono altri segni. Nei giorni in cui si uccidevano i maiali, Luigi il porcaro non toccava la moglie: la sua astinenza avrebbe conservato i salumi. Per conquistare un fidanzato, invece, si deve ricorrere a sant’Antonio, mentre per farsi spuntare il seno si può invocare con profitto la luna. Se c’è dimezzo un neonato o un moribondo, è addirittura sterminato l’elenco dì regole a cui attenersi. A una gestante viene imposta una litania di divieti: «Non tagliare il pane, non ti pesare, non cucini la piega della veste, non sederti su una sedia con il buco in mezzo, nel giorno di sant’Aniello non infilare la chiave nella toppa e non otturare il lavatoio con gli strofinacci, non fare smorfie agli sciancati, non fare il gesto del pugno chiuso, non toccare il morto, non passare sulle funi, non indossare collane o matasse di cotone, non scavalcare alcunché, non passare sull’acqua dei polpi, non passare tra i rovi».
Insomma, per dirla con le parole di Jean Baudrillard, «ogni dettaglio dell’esistenza è minuziosamente ritualizzato, ogni istante è marcato da un segno necessario, da una discriminazione, da una distinzione sacra (…) nel minimo gesto, nella parola più breve, nella minima secrezione del corpo, nel più insignificante evento naturale. Tutto è iniziatico. nel senso in cui nulla accade se non attraverso il segno necessario, ineluttabile della sua apparizione, nulla cambia se non attraverso il segno necessario, ineluttabile della sua metamorfosi. È la cerimonia del mondo>).
Naturalmente, le fiabe sommesi non sfuggono a questa cerimonia: simili gli eventi, seppure trasfigurati; simili i meccanismi mentali degli eroi e delle eroine in viaggio per luoghi incantati in cui non piove mai, perché simili sono l’approccio alla conoscenza, l’immaginano collettivo e il sapere magico. In queste storie snocciolate durante i lavori per sgranare le pannocchie, per scegliere le castagne, sgusciare legumi, o sussurrate ai bambini prima di dormire, Di Mauro ritrova (<tutto l’armamentario simbolico, complesso e indefinibile dei vari filoni di influenze: le brume del mondo favolistico germanico, le solari furfanterie del mondo arabo, la gioiosa epopea cavalleresca, medievale e feudale, l’ineludibile mondo pagano di giganti, orchi, elfi, divinità animali, evolutisi in briganti e demoni intrigant ».
Attraverso quei racconti, il tempo degli uomini e della natura riesce ancora a convivere con quello delle macchine e della tecnica. «Dio» è scritto nella leggenda intitolata La divisione delle acque «congelò la felicità nei fiocchi di neve, si che solo la memoria potesse scioglierla». Per questo, i narratori di Di Mauro hanno forse la stessa funzione dei “parlatori” delle tribù amazzoniche descritti da Mario Vargas Llosa in un suo romanzo: «Sono una prova palpabile che raccontare storie può essere qualcosa di più che un meno divertimento. Qualcosa di primordiale, qualcosa da cui dipende l’esistenza stessa di un popolo».
Bruno Arpaia