Ancora una volta, mi trovo a presentare un libro di Angelo Di Mauro. Dopo vent’anni. Tanti ne sono passati dal suo L’UOMO SELVATICO, per il quale Angelo mi chiese di scrivere una prefazione.
Angelo Di Mauro veniva spesso all’Università nella quale insegno da tanto tempo, quando essa era ancora nella città di Salerno. Posso misurare il tempo del mio rapporto con l’Università, attraverso il tempo che separa questi due libri di Angelo: tra quella piccola Università fatta di rapporti gomito a gomito, sperimentale, quasi conviviale tra studenti e professori, in cui particolarmente per me non c’era tanta differenza con gli studenti, a questa attuale, grande ed ancora in crescita, fatta di distanze chilometriche e non solo spaziali, di allontanamenti e non solo generazionali, quelli che spesso sono chiamati funzionali, ma che alla fine sono distanze umane.
Quando l’Università era nella città, insieme agli studenti istituzionali, capitava sempre di trovare a lezione persone che avevano curiosità intellettuali e che venivano a coltivarle nelle aule. E si facevano conoscere per la loro curiosità ed amore spassionato per la cultura, così che spesso nascevano amicizie. Come nel caso di Angelo Di Mauro.
Posso anche misurare i tempi lunghi dell’amicizia, tra quel libro e questo: l’amicizia rimane una delle poche cose che si fermano, oggi, a fronte di tante cose che corrono velocemente e mutano. L’amicizia che mi lega ad Angelo è rimasta costante, anche se ci vediamo molto di rado, Angelo non viene nel campus lontano dalla città e poi la vita che scorre crea distanze fisiche. Ma l’amicizia rimane perché si basa su alcuni requisiti che non invecchiano: simpatia, sintonia, sincerità, scambio (curiosamente cominciano tutti per ‘esse’). E queste ‘esse’ o ci sono, e rimangono, o non ci sono e non vi sarà mai l’amicizia. Tralascio le prime tre ‘esse’ e mi fermo alla quarta, allo scambio. Angelo mi ha donato la dimensione – nel senso che mi ha fatto conoscere – del rapporto d’amore con la sua terra, il suo passato, la storia culturale del territorio. Rapporto sobrio e intenso al tempo stesso. Sobrio perché non roboante, come per i tanti che fanno proclami di rapporto con la tradizione da cui sembra debbano dipendere i destini non solo delle culture proclamate, ma del mondo intero. Intenso perché non dettato da mode né subalterno ad esse, al contrario indifferente a quelle, nato per quella pietas storica di chi si inchina silenziosamente a raccogliere i piccoli fiori della propria memoria e della memoria collettiva di cui il tempo smarrisce i profumi. E pubblicazioni nato in una dimensione di rievocazione incantata del passato, ma pur consapevole della sua inevitabile reinvenzione nel presente (lo sorregge in questo la sua robusta vena poetica, espressa in tante che qui polla nel gioco appassionato delle sue parole, mai fredde neutre, al contrario cariche del piacere della scrittura che diventa poi piacere della lettura).
In questo libro, ancora una volta Somma Vesuviana. Ancora una volta Angelo gira instancabile per le vie del suo rapporto con la terra d’origine, che è il suo rapporto con l’infanzia che occhieggia nel presente, nel mondo che descrive, tra le nitide pagine introduttive e quelle in cui s’addensano le voci antiche della sua terra. Ma Angelo non inventa nulla, non fa fantasia dei ricordi. La sua straordinaria abilità in questo libro è nel rappresentarci insieme l’occhio “freddo” del raccoglitore-analizzatore e il cuore del bambino che si emoziona tutte le volte che riporta fuori antichi temi oscurati dal tempo.
Sono decenni che Angelo torna a pubblicare su questi temi, con spunti e appunti delle sue indagini a volte lontani nel tempo, o con documenti recenti. Torna a lavorare su questi temi perché non li ha esauriti nel modo stesso in cui non ha esaurito la sua memoria, in altre parole la ricerca di sé.
E noi non abbiamo esaurito la curiosità e il piacere di leggerlo.
Paolo Apolito