INTRODUZIONE
Sarebbe ingiusto e presuntuoso applicare a questa immanis sylva, che Angelo Di Mauro invita a visitare, le regole aride e, talvolta, insignificanti di una rigorosa lettura antropologica. La prima, decisiva importanza di questa raccolta sta nel paziente e amoroso impegno, nella diuturna registrazione di dati che sottendono un ethos e una passione tutti meridionali: Di Mauro smentisce la leggenda della nostra naturale pigrizia, e in una terra come la nostra che, in materia di documentazione, era restata addormentata all’epoca dei repertori ottocenteschi è soltanto recentemente era stata scossa dai radicali interventi e dalle riproposte di Roberto De Simone, riesce a rivelarci un theatrum mundi vesuviano, nel quale rievocate figure e situazioni e maschere e riti e alternanze di vita/morte si riscattano dall’incantesimo della pura fantasia creatrice (quella del fiume di elaborazioni letterarie riguardanti Napoli e il suo territorio) e si delineano nella sicurezza ineccepibile del reperto nel lavoro sul campo.
Il che, sia detto con onestà, oppone una intensa filologia del ricostruire la storia sulla concretezza delle fattualità e, in sostanza, sulla dura fatica del raccogliere e del sistemare, alla facile moda di molta antropologia contemporanea crocefissa agli esperimenti di tavolino e intesa a ridurre nel metro quadro di esso gli infiniti spazi delle vicende di uomini mai conosciuti e mai avvicinati. Nel leggere queste pagine e queste note, che corrono in una sete mai pacificata del conoscere e del fissare, si ha la netta impressione dì avere come guida e compagno di viaggio un pellegrino affannato che parta dentro antiche sofferenze e remoti fermenti: quelli dell’uomo del Sud che d’improvviso ha aperto gli occhi sui suoi universi culturali e ne ricerca le seppellite radicalità intuendone e determinandone i valori segnici e le dinamiche simboliche. E il tutto a me. lettore purtroppo scaltro, sembra calarsi nell’irrequietezza di una manzoniana lotta contro il tempo, il quale va erodendo con irreparabile progressività questi patrimoni culturali delle tetre napoletane e ad essi va sostituendo il silenzio. In altri termini Di Mauro si fa, in tutta la polivalenza, anche scomposta, dei suoi interessi, l’improvviso testimone di una cultura che, per le traversie della società postindustriale, va spegnendosi e va distendendosi ,nel sudario di modelli appiattenti e uniformanti. Ci si deve pur chiedere se fra dieci o vent’anni, qui, nelle terre del Vesuvio, sarà ancora possibile riscoprire i ritmi della ritualità contadina, le possenti figurazioni dei mondi arcaici, i segni di una visione del mondo integrata o globale, o se invece il cemento, l’intrallazzo politico, la violenza deculturante dei mass-media non avranno ridotto il paesaggio interiore a un deserto lunare. Non riusciremo, forse, a trovare mai più, per rifarci soltanto ad una delle cerimonialità riesumate in questo libro, il ” parzunare “o contadino che, all’Assunzione evita di passare fra i filari di vite, gestendo alle falde dei paesi vesuviani remotissime consuetudini; e forse queste carnali paesane che sono le informatrici di Di Mauro diverranno squallide portatrici dei medesimi bisogni indotti che la dinamica di profitto detta ai cittadini di Tokyo o di Los Angeles, ne riusciranno più a cadenzare i loro canti corposi e a narrare le loro storie stupende. E allora in questo determinante valore, che è il salvare dal tempo ciò che il tempo ingoia. è forse l’altro incidente peso di – questa raccolta.
Ecco perchè, si diceva, nell’incontro con questo fermento delle passioni e in presenza dell’imponenza del palinsesto documentario, ogni antropologico chiarire e soppesare corre il rischio di divenire infantile pretesa e boria di dotti e varrebbe soltanto a disconnettere, con le minuzie deludenti di un discorso pretestuosamente scientifico, i cosmi vigorosi ed esagitati che sono nei dati e che la tensione etica di Di Mauro ci dispiega. Questo libro, perciò, va letto, attraversato, sentito come un grande a/fresco, come un vigoroso incantesimo, nel quale. tuttavia, ogni voce documentante è garantita da serietà; ed è anche un dono alle generazioni che vengono e che probabilmente di queste cose avranno soltanto pallide immagini memoriali. Le tonalità descrittive, poi, appartengono ad una erompente ricchezza linguistica di Di Mauro, ad un’attitudine a reinserire il dato severo in una napoletanità dell’intuizione creatrice, che, del resto, mi è stata occasionalmente documentata dalla lettura di una poesia dell’autore. E vorrei che a questo opus inventarii, pur così intriso di sintassi poetica, Di Mauro facesse seguire un libro di sue liriche, nel quale il discorso sulla napoletanità si liberi da ogni gravame di materia concreta.
Questa valutazione complessiva, come si suol dire con lessico di ragioneria, non toglie che chi fa mestiere di ricerca storico-religiosa e antropologica, non sia chiamato a indicare talune linee di lettura, che intendono soltanto collocare il lavoro di Di Mauro nell’attuale panorama degli.studi. I tratti teorici, in funzione dei quali, negli ultimi anni, sono stati affrontati i problemi della napoletanità, dipendono, in parte, da premesse sistematiche (e ideologiche) che non potrebbero essere più condivise. Vorrei, cioè, chiarire che taluni tipi di interpretazione che vanno da Annabella Rossi a Roberto De Simone e passano attraverso molti studiosi e ricercatori campani, si sono affidati ad un devastante frazerismo ad un’ipotesi metodologica che, negli anni dell’Inghilterra vittoriana e coloniale, sembrò definitiva ed illuminante. Frazerismo riferito all’impianto del Golden Bough (Il Ramo d’oro) di Frazer, significa disponibilità a riconsiderare uno specifico dato culturale (per esempio l’uso napoletano del grano germogliato nei Sepolcri) in una trama di relazioni e di referenti tendenzialmente disponibili ad ampliamenti non documentati storicamente, così che la specificità di un dato per esempio quello del grano germogliato, si imparenta improvvisamente con le più impensate analogie, dal culto osirideo a quello adonico e misterico in genere, fino ai livelli eleusini e con inattesi crolli nella esemplificazione anche etnologica e dei cosiddetti ‘popoli senza scrittura ‘. A questa tendenza si oppone attualmente un gusto della anatomicità documentaria e storica
- che anche presso di noi, nasce dal grande esempio delle Annales – un gusto che, di fallo, si ricostituisce quando siamo di fronte a documenti, come esigenza irrenunziabile di ‘provare di determinare di minutamente dimostrare la relazione di essi e dei fatti in essi descritti con la couche arcaica delle culture dalle quali dipendiamo: così che residua il problema della credibilità dì rapporti fra monili tardo-antichi o etnologici e statuti della cultura vesuviano quando le interrelazioni genetiche non siano rigorosamente accertate.
Evidentemente vi è altro modo dì risolvere la conflittualità fra documento e intuizione storico-antropologica: ed è il ricorso agli insegnamenti, da me non condivisi che vengono dalla scuola jungiana, anche attraverso l’epifenomeno jungiano rappresentato dalle ipotesi di Mircea Eliade. Secondo queste ipotesi, l’uomo, questa straordinaria creatura zoologica, erompe in manifestazioni apparentemente diverse, che, tuttavia, appartengono al sotterraneo patrimonio comune della condizione umana. E se un abitante del centro della Mongolia realizza nel suo tempo di storia gestualità, riti cerimonialità che trovano riscontro analogico con con quelli realizzati, per esempio, nella zona vesuviana, l’osservatore, anche questo straordinario osservatore che è Di Mauro riesce a sezionare l’utero dei millenni, e, all’interno, accede a quella che antiche teorie, oggi, almeno nei miei metodi, non accettabili, chiamavano l’unità fondamentale dello Spirito umano: il quale per infinite via e astuzie e disegni esplode in incanti semiotici analoghi. Ed è questa, in fondo, una prospettiva presente anche nel pensiero vichiano, che pone, alla base dei tempi singolari degli eventi dì storia, una cadenza unitaria e fondamentale, che è quella dette guise .
Dopo queste notazioni critiche, che escludono evidentemente la pretesa di dichiarare in questa sede una verità antropologica (fortunatamente l’antropologica resta un sentiero aperto che non pretende di gridare al vento verità definitive), è forse onesto esprimere su questo lavoro un giudizio di solidarietà. In. un continente come il nostro, che trova suoi limiti topografici fra il Cilento e la Campania Felix con una eccezionale sofferta matrice nelle terre che sono intorno ai Vesuvio, Di Mauro ha lavorato da solo, ha portato a termine quello che gli appariva un suo progetto etico e scientifico, nella desolazione totale di altre presenze, nel silenzio rattristante dei centri universitari i quali sia detto chiaramente non riescono a produrre cultura umana, nella distanza da interventi pubblici che resta.no insensibili a imprese culturali.
Istituto Universitario Orientale
Alfonso M. di Nola